CHI SIAMO?

Un gruppo di GIOVANI che guidati da motivazioni, pensieri, formazioni e percorsi diversi credono in un unico OBIETTIVO, ovvero quello di agire in un campo in cui avvengono ogni giorno violazioni di diritti e soprusi, un luogo in cui non sempre la pratica e l’opinione comune seguono la LEGGE.

IL MANIFESTO

“Pene più miti? Maggiore rispetto della libertà personale degli indagati? No. Pene più severe, bisogna punire di più. Un sospetto è sufficiente per l’arresto altrimenti tutti la fanno franca. Maggiori diritti per i carcerati? Condizioni più umane all’interno delle carceri? No. Bisogna buttare via la chiave, lasciarli chiusi in gattabuia, perché è questo quello che si meritano, l’annullamento di ogni diritto e di ogni speranza per una vita migliore”. Queste sono le tipiche frasi che tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo sentito, l’opinione dominante di coloro che non hanno provato cosa significa davvero entrare in carcere.

Noi, invece, abbiamo deciso di metterci in gioco per provare a cambiare le cose. Vogliamo farlo perché crediamo nei diritti umani, che devono essere riconosciuti ad ogni individuo. Crediamo che solo garantendo la dignità ad una persona questa potrà diventare migliore. Crediamo nell’educazione e nei valori che essa trasmette, crediamo che sia necessario spezzare la catena del male con la Speranza e la voglia di costruire insieme vite degne di essere vissute. Abbiamo fatto una scelta, quella di diventare un’Associazione.

Che cos’è il GARANTISMO?

L’umanità ha sempre voluto la sicurezza e nella sicurezza ha ricercato la libertà. Fino a che punto questa volontà di sicurezza può tradursi in un’eccessiva limitazione della libertà? Siamo veramente certi che limitare la libertà sia l’unico modo per realizzare un’esistenza sicura? L’esercizio diffuso e arbitrario del potere punitivo veramente ci permette di essere più liberi? Giuseppe Bettiol, giurista friulano, scrisse che il diritto penale comincia dove l’arbitrio finisce. Oggi, questo principio intangibile e fondante lo Stato di diritto, viene rispettato? Viviamo in un’epoca dove all’esponenziale velocità con cui le notizie vengono trasmesse, non corrisponde un’informazione consapevole e veritiera. Dove assistiamo a una spettacolarizzazione della giustizia e delle indagini, a cui si connette un esagerato coinvolgimento del pubblico, unico vero giudice di un processo mediatico che anticipa ogni sentenza.

Dove la ricerca della notizia che fa scalpore legittima inchieste che più che smascherare un reato, spesso ingannano e spingono alla sua commissione. Dove la manipolazione sistematica dei fatti esige un ricorso sempre più diffuso e frequente allo strumento penalistico. Tutto questo ci rende più sicuri? Ci rende più liberi? La nostra risposta è NO. Tutto questo non è garantismo. Il garantismo si fonda sul rispetto della dignità umana, ed è da essa che promanano tutti i suoi principi: principio di legalità, presunzione di non colpevolezza, proporzionalità e rieducazione della pena. Essere garantisti significa comprendere come la tutela effettiva di diritti sulla carta intangibili, debba spesso scontrarsi con la loro sistematica violazione. Ancora oggi vi sono persone la cui detenzione e l’arresto non hanno altro fondamento se non l’arbitrario esercizio del potere punitivo. Insomma, la bandiera del garantismo è a mezz’asta e all’orizzonte pochi sono coloro che hanno il coraggio di issarla. Eppure, da essi bisogna partire, memori di un passato, spesso anche recente, in cui totalitarismi e dittature hanno privato l’umanità della dignità della propria libertà. Perché, dunque, crediamo nel Garantismo? Crediamo nel Garantismo perché riteniamo che i diritti di ogni persona debbano essere rispettati. Crediamo che non sia legittimo ritenere colpevole qualcuno soltanto perché sottoposto a indagine. Crediamo nella sussidiarietà del diritto penale.

Che cosa significa SUSSIDIARIETÀ DEL DIRITTO PENALE?

Il diritto penale è un’arma a doppio taglio: per tutelare determinati diritti, ne lede degli altri. Proprio per questo motivo il diritto penale deve essere l’ultimo strumento a disposizione del legislatore per rispondere alle violazioni della legge, nonostante venga considerato da molti l’unico mezzo in grado di risolvere i problemi della società. Questo deriva dall’erronea convinzione che la repressione sia strumento efficace e adatto a creare una convivenza sicura, agendo come unico deterrente atto ad evitare la commissione di reati. Nonostante comunemente si ritenga che un maggior ricorso al carcere equivalga a una maggiore sicurezza, questo scopo non viene realizzato, e al contrario la reclusione, per come oggi è concepita, più che ridurre la presenza di criminali, ne aumenta il numero. Per secoli la pena è stata considerata una mera retribuzione per il reato commesso, in grado di soddisfare la richiesta di giustizia della vittima. Ancora oggi pensiamo che questa sia l’unica funzione possibile? Noi crediamo che la pena non sia solo una vendetta volta a risarcire il dolore inferto. La nostra Costituzione afferma infatti inequivocabilmente all’art. 27 comma 3 che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.»

Cosa si intende per FUNZIONE RIEDUCATIVA DELLA PENA?

Noi proponiamo una pena che consenta un effettivo percorso rieducativo, che dia una seconda possibilità: categoricamente, affermiamo di non voler abolire questo istituto e tantomeno il carcere. È, infatti, necessario limitare la libertà di movimento, azione e circolazione a persone che potrebbero nuocere alla collettività. Ma non è lecito, secondo la nostra visione, limitare la funzione del carcere a magazzino a tempo indeterminato. A chiunque, qualsiasi sia il crimine di cui si è macchiato, dovrebbero essere garantiti i diritti fondamentali. Parliamo infatti sempre di persone, non di mostri. Possiamo dire che un individuo commette un’azione ai nostri occhi mostruosa, ma non significa che ciò lo privi automaticamente della dignità e di quel nucleo di diritti considerati inviolabili, proprio perché connaturati ad ogni essere umano in quanto tale. “Buttare via la chiave” non contribuisce a formare dei cittadini che, una volta usciti dal carcere, riescano a interagire collaborativamente con gli altri membri della collettività. Per rieducare, però, una pena deve avere fine. È inevitabile, purtroppo, che alcune persone non raggiungano i requisiti minimi per poter rientrare in società. Nonostante ciò, nessuno, a prescindere, deve essere privato della possibilità di accedere ai percorsi rieducativi.

COME VOGLIAMO AGIRE NEL CONCRETO?