di Savina Ottieri.


Con il termine “ergastolo” si è soliti riferirsi alla pena che non ha fine, definita come “perpetua” dal Codice penale. Da sempre la reclusione a vita solleva perplessità in quanto stride con l’articolo 27 della Costituzione, che individua quale scopo della pena la rieducazione del condannato. Prima ancora di porci un problema sulla sua legittimità e forse anche sulla sua “umanità”, l’obiettivo di questa riflessione è quello di tracciare un quadro sintetico della disciplina in vigore ed evidenziarne le criticità fondanti un’esigenza di riforma.

L’ergastolo, concepito quale sostituto della pena di morte, è, nella prassi, distinto in due tipologie: “comune” e “ostativo”.

Il primo viene applicato a coloro che si sono macchiati di gravi delitti come l’omicidio premeditato, stalking o violenza sessuale a cui segue la morte della vittima, attentato al Presidente della Repubblica etc. La perpetuità in questi casi viene intaccata da una serie di benefici a cui il condannato può accedere quali il lavoro all’esterno, i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale1. L’accesso a questi benefici non è automatico, ma subordinato ad una duplice condizione: decorso del tempo e buona condotta, indice di una partecipazione attiva del detenuto al percorso rieducativo. È proprio grazie a questi correttivi che l’ergastolo comune non si pone in contrasto con l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato.

Non altrettanto può dirsi per l’ergastolo “ostativo” che viene introdotto nel 1992, subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, per far fronte all’allarme sociale destato dalle associazioni mafiose sul territorio. Si tratta, infatti, di un particolare regime previsto per specifici delitti che consente l’accesso ai benefici di cui sopra a condizione che il soggetto collabori o che si verifichi l’esistenza di ulteriori requisiti (quest’ultima condizione aggiunta con la legge n. 199 del 2022). Questo regime in passato andava applicato prevalentemente a coloro che venivano condannati per delitti commessi avvalendosi di associazioni mafiose, in linea con la ratio che aveva spinto il legislatore ad introdurre un così duro trattamento. Si mirava, infatti, ad evitare l’uscita dal carcere, anche con permessi di poche ore, di detenuti ancora pericolosi in ragione dei loro persistenti legami con la criminalità organizzata. Non si dimentichi, poi, che la scelta di indicare quale condizione la collaborazione era basata, ovviamente, sulla volontà di spingere i condannati a divenire collaboratori di giustizia.

La prima criticità da rilevare attiene proprio all’elenco dei delitti per cui tali limitazioni sono previste, un elenco che nel tempo si è ampliato in maniera smisurata, facendo perdere di vista il focus della norma.

Occorre domandarsi se le condizioni poste dal legislatore per l’accesso a questi benefici siano tali da dare una concreta chance di ritornare in società. Se così non fosse, si porrebbe l’ovvio quesito: come può una pena che non prevede la possibilità di rientrare in società, conciliarsi con il fine di risocializzazione della pena sancito in Costituzione? Infatti, se davvero una possibilità non viene data, il detenuto potrebbe anche aver concluso positivamente il percorso rieducativo (cosa comunque difficile visto che non si hanno prospettive future), ma proprio quel risultato non sarebbe spendibile in società, essendo per lui impossibile tornare a farne parte. Pertanto, in concreto l’esigenza di cui all’art. 27 Cost. non verrebbe realizzata.

Si tratta di un problema tutt’altro che marginale dal momento che i condannati all’ergastolo alla data del 31.3.2023 erano 1863, di cui ben 1293 (quindi la maggioranza) gli ergastolani ostativi2.

È utile analizzare brevemente le condizioni apposte. La collaborazione con la giustizia3 rimane il principale strumento utile a superare la presunzione di permanenza del vincolo associativo. La ragione di fondo di una tale scelta è data dall’applicazione di una solida massima di esperienza: il condannato per questi reati mantiene saldamente i legami con l’associazione mafiosa di appartenenza, in quanto essa accetta il rischio di possibili periodi di detenzione dei propri affiliati, garantendo loro il pagamento delle spese legali oltre che il mantenimento economico dei suoi familiari. La permanenza del vincolo associativo, secondo molti, viene meno solo in caso di cessazione dell’associazione stessa o nei casi di recesso o esclusione dell’associato, che possono essere causate dalla collaborazione con la giustizia. Questo sarebbe il modo sicuro per spezzare irrimediabilmente il legame mafioso perché dalla collaborazione deriva la rottura del patto, mentre dall’omertà ne deriva senz’altro il suo consolidamento((Tra gli altri, Tribunale di Sorveglianza di Roma, ordinanza del 28 giugno 2022.)). Tuttavia, può essere utile ridimensionare la portata della collaborazione, che non si può considerare automaticamente una prova chiara di ravvedimento o pentimento della persona. La Corte costituzionale4 ha acutamente osservato che la collaborazione con la giustizia non è automaticamente sintomo di un credibile ravvedimento perché ben può essere il frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei molteplici vantaggi a cui si va incontro; di conseguenza non necessariamente è segno di un percorso rieducativo di successo. Di contro, la mancata collaborazione non può assurgere a presunzione assoluta di assenza di ravvedimento o di mantenimento di legami con il sodalizio mafioso di appartenenza ma può essere determinata dal timore per l’incolumità propria e dei propri familiari che ne potrebbe derivare, dal rifiuto morale di muovere un’accusa ad un congiunto o a persone a cui si è legati per motivi affettivi, dal rifiuto di una collaborazione puramente utilitaristica. Ne deriva un bivio dinanzi al quale il condannato è posto: collaborare (con tutte le conseguenze del caso) o trascorrere il resto della sua esistenza in carcere. Inserire quale prima condizione la collaborazione è stata certamente una scelta politica, che fa prevalere l’esigenza di neutralizzazione del condannato sulla finalità rieducativa, nonostante questa sia l’unica individuata espressamente dalla Carta costituzionale.

Tra l’altro, prima della recente riforma, veniva riconosciuta la differenza tra il “non collaborante per scelta” (chi può collaborare ma non vuole) e il “non collaborante suo malgrado” (chi vorrebbe ma oggettivamente non può collaborare). Quindi, se la collaborazione era impossibile (ad esempio perché non c’era nulla da rivelare) o irrilevante (ad esempio, perché tutti gli accertamenti erano già stati compiuti) allora la pretesa della collaborazione veniva meno. Oggi non è più così, perché la disciplina in vigore equipara queste situazioni profondamente diverse, richiedendo gli stessi standard probatori a chi non vuole collaborare e a chi, pur volendo, non può oggettivamente farlo, con buona pace del principio di uguaglianza. Per assurdo, una normativa che si proponeva di rendere più largo il varco per l’accesso ai benefici, finisce per restringerlo perché anche chi oggettivamente non può collaborare, è costretto a dover dimostrare l’inestricabile elenco di condizioni che sono state inserite.

Veniamo, dunque, proprio a queste condizioni che vengono richieste a chi non collabora. Si ha la possibilità di accedere ai benefici se il detenuto che non collabora riesce a portare elementi specifici, diversi e ulteriori che provino l’avvenuta rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché l’insussistenza del pericolo di riallacciare tali rapporti.

Cosa implica davvero una simile richiesta? Anzitutto non basta la buona condotta, l’adesione al trattamento rieducativo o un’esplicita dichiarazione di dissociazione. Si richiede, infatti, la valutazione dei motivi addotti alla mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa, delle circostanze personali e ambientali (ad esempio, la dimostrazione dell’estraneità della propria famiglia al contesto malavitoso, il mancato sostegno economico da parte dell’associazione, la mancanza di contatti con il sodalizio di riferimento). Già di per sé queste prove sono difficili da fornire, a maggior ragione per chi è in carcere e si trova a dimostrare qualcosa di diverso da ciò che avviene tra le stesse mura in cui è rinchiuso. Ancora più difficile è dimostrare che non ci sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti, perché di fatto si sta richiedendo di dimostrare una circostanza ancora insussistente e che potrebbe verificarsi in futuro.

Revisione critica”, dice, poi, la norma, concetto nebuloso che guarda al pentimento, un sentimento intimo proprio del foro interno dell’individuo, di cui ci si domanda come si possa darne prova, se non a parole5.

Il panorama fin qui brevemente delineato fa sorgere quantomeno il dubbio che la disciplina attuale sia una risposta puramente estetica alle innumerevoli perplessità che sono state negli anni sollevate e che richiedevano un intervento profondo, che rendesse effettiva quella possibilità6. Eppure, la nostra Corte costituzionale ha assunto ormai da tempo una posizione chiara: la pena perpetua è legittima nei limiti in cui essa possa divenire temporanea, altrimenti è incostituzionale. E la Costituzione viene rispettata solo se c’è uno spiraglio effettivo, concreto, realizzabile per poter sfuggire a quella perpetuità.

Si è detto che l’ergastolo in molte realtà ha sostituito la pena di morte, ma davvero possiamo permetterci di guardare con orrore a quei Paesi che ancora oggi usano la pena capitale? Davvero possiamo dirci più civilizzati sostenendo che il carcere a vita è pena più “umana” e dignitosa della condanna di morte?

La risposta ce la dava già Cesare Beccaria, il più noto fautore dell’abolizione della pena di morte, il quale fondava questa proposta sull’idea per cui la privazione della libertà senza termine ha una natura ben più gravosa e tragica della morte immediata, capace di incidere più profondamente sull’animo umano. Sulla stessa linea si pongono illustri giuristi, tra cui Aldo Moro, il quale sosteneva che “l’ergastolo priva di qualsiasi speranza, qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Forse rende meglio l’idea di un tale macigno quanto è scritto sulla scheda personale dell’ergastolano, ove è indicata come giorno di fine della detenzione il 31.12.9999.

Con ciò non si sta cercando di minimizzare la drammaticità del fenomeno mafioso in Italia, che certamente rimane un unicum che richiede altrettanto “unici” strumenti di lotta. Tuttavia, neppure questa condizione può divenire la giustificazione a norme che negano la dignità e i diritti inviolabili della persona, elementi imprescindibili in uno Stato democratico, che deve avvalersi di mezzi altri conformi necessariamente a tali principi. Infine, non riconoscere neppure il diritto alla speranza che un giorno quelle porte si possano aprire, implica concepire quei 1293 ergastolani come uomini che si identificheranno per sempre con il delitto commesso, mentre ognuno di noi sa bene che nessuno è mai uguale al “Sé” di venti o trenta anni fa e che, come scrive Silvia Giacomoni, «la persona non è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia».

  1. La semilibertà consente al condannato che abbia espiato almeno 20 anni di pena di trascorrere parte della giornata all’esterno del carcere per svolgere anche attività lavorative o istruttive. Invece, la liberazione condizionale permette al condannato, una volta scontati almeno 26 anni di pena, di essere rimesso in libertà, sempre che nei successivi 5 anni non commetta altri delitti o contravvenzioni della stessa indole. []
  2. Dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, 2023. []
  3. Per collaborazione intendiamo un contributo informativo relativo o al delitto per cui si sta scontando la pena o che
    realizzi un “aiuto concreto” per l’autorità di polizia o per quella giudiziaria, un apporto che diviene rilevante per le indagini
    e che contribuisce alla formazione di prove indispensabili per dimostrare la responsabilità di altri imputati. []
  4. Ordinanza n. 97 del 2021; Sentenze n. 253 del 2019; n. 306 del 1993. []
  5. Per un approfondimento sul tema, si veda M. MERLINO, Esiste ancora l’ergastolo ostativo?, in Questione Giustizia
    < Esiste ancora l’ergastolo ostativo? (questionegiustizia.it)>.  []
  6. Oltre alle molteplici sollecitazioni da parte della nostra Corte costituzionale, sul punto si è espressa anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, con sentenza n. 77633 del 13 giugno 2019: «L’ergastolo ostativo previsto nell’ordinamento italiano per alcuni reati di particolare gravità nei casi in cui il condannato si rifiuti di collaborare con l’autorità giudiziaria è in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Se il detenuto, a causa di questo regime, non ha la possibilità di reinserirsi nella società malgrado un cambiamento nel proprio percorso che non viene valutato proprio a causa della mancata cooperazione, lo Stato commette una violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta i trattamenti inumani e degradanti e compromette la dignità umana al centro del sistema convenzionale». []

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