di Martina Patrizia Piccin
L’affettività è l’insieme delle emozioni che influenzano la vita di ogni individuo, determinandone il benessere o, al contrario, il disagio psicologico. In altre parole, è un elemento identitario fondamentale: coltivare relazioni affettive permette di vivere con serenità e di sviluppare un equilibrio interiore. Si potrebbe definire come «la dimensione più radicale dell’essere umano»[1].
Proprio per questo l’affettività si configura come un diritto fondamentale, tutelato da diverse norme sia nazionali che di matrice sovrannazionale. Nella nostra Carta costituzionale troviamo numerosi riferimenti: gli articoli 2 e 3 sanciscono i diritti inviolabili della persona e il principio di uguaglianza, l’art. 27 comma 3 vieta quelle pene che possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, mentre gli articoli 29, 30 e 31 riconoscono l’importanza della famiglia e dei legami affettivi.
In buona sostanza, la tutela di questo diritto fondamentale emerge in diverse disposizioni e ambiti, assumendo una connotazione e un significato differente a seconda del contesto di riferimento. Ad esempio, se ragioniamo di diritto alla salute, l’affettività diviene il benessere affettivo riconosciuto come parte integrante di una sana condizione psicofisica dell’individuo. Nel diritto di famiglia, invece, l’affettività si collega al riconoscimento e alla protezione dei legami affettivi, come quelli tra coniugi o tra genitori e figli.
Nella dimensione penitenziaria, infine, la dimensione dell’affettività attiene alla possibilità per le persone detenute di mantenere relazioni con i propri cari; pertanto, l’affettività è un aspetto essenziale per intraprendere un programma trattamentale utile e funzionale al loro conseguente reinserimento sociale.
A livello europeo, la protezione di tale diritto è garantita dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in particolare dall’articolo 3, che vieta trattamenti inumani e degradanti, e dall’articolo 8, che tutela il diritto alla vita privata e familiare.
Questi principi dimostrano come l’affettività non sia solo un aspetto della sfera personale, ma un diritto fondamentale che si presta a più declinazioni a seconda del contesto di riferimento, meritando così pieno riconoscimento e tutela, specialmente quando si affrontano questioni di natura detentiva.
Difatti, proprio nelle carceri, l’affettività incontra inevitabilmente le maggiori problematiche e limitazioni, in quanto segmento di socialità che implica per forza un rapporto con “l’altro”.
Se ragioniamo in quest’ottica di “relazione”, l’ordinamento penitenziario italiano garantisce alle persone detenute il diritto ai colloqui con i familiari (art. 18 L. 354/1975), sia a distanza che in presenza, ma non prevede spazi dedicati all’intimità che non siano accompagnati da una diretta supervisione da parte del personale di controllo, impedendo così la piena espressione dei legami affettivi.
Questa carenza normativa o, meglio, difettosa applicazione dei nostri principi costituzionali in sede amministrativa, crea un forte disagio psicologico nelle persone detenute, incidendo negativamente sul loro percorso di rieducazione e reinserimento sociale. Come si diceva poc’anzi, un buon programma trattamentale è fondamentale affinché ci sia un proficuo reinserimento sociale, ed eliminare anche la possibilità di intrattenere o coltivare questi legami affettivi può incidere in maniera molto negativa sugli esiti futuri del reinserimento.
In diversi Paesi europei esistono già forme di tutela dell’affettività in carcere. In Norvegia e in Finlandia sono istituite all’interno delle strutture penitenziarie delle sezioni apposite per ricevere le visite dei propri partner; invece, in Svezia si è pensato di creare vere e proprie unità abitative speciali per permettere alle persone detenute di avere momenti di maggiore intimità. In Italia, al contrario, il dibattito su una possibile riforma è ancora aperto e acceso, laddove si rende necessario contemperare in sede di applicazione della pena due distinte esigenze: da un lato la sicurezza sociale a fronte della pericolosità della persona detenuta e, dall’altro, il rispetto dei diritti inviolabili della persona, qui intesi come dignità e mantenimento dei rapporti affettivi, oltre che garanzia di un adeguato reinserimento sociale.
Questa necessità di equilibrio ha guidato le più recenti evoluzioni giurisprudenziali, evidenziando una tendenza positiva da parte della Corte costituzionale nel riconoscere e valorizzare il ruolo dell’affettività in carcere. A partire dallo scorso anno, diverse pronunce hanno progressivamente (e con fatica) contribuito a delineare i confini di quella che potrebbe diventare, auspicabilmente, una nuova concezione giuridica della tutela dell’affettività nel sistema penitenziario italiano.
Infatti, la Corte costituzionale con sentenza n. 10/2024 ha dichiarato illegittimo il divieto all’affettività e alla sessualità in carcere, in particolare, l’illegittimità dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non consente lo svolgimento di colloqui interni senza la sorveglianza a vista del personale di custodia. Tale limitazione è stata ritenuta una restrizione irragionevole dell’esercizio dell’affettività, e perciò in contrasto con le norme costituzionali e sovranazionali che ne garantiscono la tutela. Il necessario equilibrio tra l’esecuzione della pena e il rispetto dei diritti delle persone detenute impone di salvaguardarne la dignità, l’umanità e quel residuo di libertà personale che permane anche in stato di detenzione.
Un’altra pronuncia rilevante è la sentenza n. 85/2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, della legge n. 70/2020. La Corte ha rilevato una disparità di trattamento nei confronti dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, ai quali era consentito effettuare colloqui familiari solo una volta al mese. Questa limitazione è stata ritenuta non conforme ai principi costituzionali, poiché impedisce un’adeguata tutela dei legami affettivi anche per chi si trova in condizioni di detenzione più restrittiva. In questo modo abbiamo assistito ad un rafforzamento indiretto del diritto della persona detenuta al mantenimento delle relazioni affettive.
Giungendo quindi alle pronunce più recenti, con la sentenza n. 8/2025 la Corte di Cassazione ha evidenziato ancora una volta il ruolo che i colloqui e i momenti di intimità possono avere nel riconoscimento e rispetto del diritto all’affettività della persona detenuta, tanto da non poterli ridurre ad una mera concessione. Si precisa, comunque, la possibilità di limitare tale diritto in ragione di provate esigenze legate alla sicurezza, all’ordine e alla disciplina all’interno dell’istituto penitenziario o a comportamenti inappropriati da parte della persona detenuta.
Su questa scia, negli ultimi giorni, abbiamo appreso la notizia di due detenuti (presso le carceri di Terni e Parma) che hanno ottenuto il permesso di incontrare le proprie partner in forma privata, senza la presenza della polizia penitenziaria, dopo che più volte le loro richieste erano state rigettate. I magistrati di sorveglianza non solo hanno applicato concretamente quanto disposto dalla sentenza n. 10/2024, ma hanno anche ordinato ai rispettivi istituti di predisporre gli spazi idonei agli incontri entro il termine di 60 giorni.
Quello dell’individuare gli spazi idonei è stato forse l’aspetto più problematico di tutta la questione: non sono mai state date indicazioni su chi dovesse attivamente occuparsi della realizzazione di questi ambienti. Nel carcere di Padova, ad esempio, era sorta una controversia per mano del nostro Governo, in quanto era stata bloccata l’iniziativa di alcune associazioni che si erano impegnate ad istituire le cosiddette “stanze dell’amore”, poiché si sosteneva che a doversi occupare della questione fosse il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), rimasto fino ad allora inerte.
Ad oggi, con queste pronunce, sembra esserci uno spiraglio di luce in tutto questo grigio e complesso garbuglio burocratico: con le recenti ordinanze dei magistrati di Terni e Parma, la responsabilità ricade ora direttamente sulle singole strutture, che dovranno individuare e allestire gli spazi necessari entro due mesi, senza attendere ulteriori direttive.
Ciò conduce inevitabilmente a una riflessione più ampia sulla disomogeneità delle strutture penitenziarie sul territorio nazionale: gli istituti di detenzione non sono tutti uguali, né per organizzazione né per dotazioni, e presentano significative differenze in termini di dimensioni e condizioni infrastrutturali.
Alcuni penitenziari dispongono di ambienti relativamente moderni e meglio attrezzati (come quelli di più recente costruzione), mentre altri, spesso situati in edifici storici, soffrono di carenze strutturali. A ciò si aggiunge il problema della gestione interna: la disponibilità di personale, la distribuzione stessa delle persone detenute nelle varie sezioni (che già di per sé devono fronteggiare l’enorme problema del sovraffollamento), nonché il livello di sorveglianza richiesto (che può variare da un carcere all’altro). Questa veloce panoramica lascia emergere tutte le possibili difficoltà a livello pratico nell’adeguamento alle nuove disposizioni.
Se non ci sarà, poi, un diretto intervento da parte di tutte le istituzioni competenti volto a garantire un piano di adeguamento nazionale ed omogeneo verso queste necessità, si rischierà di dar adito ad ulteriori discriminazioni, differenziazioni, lasciando che sia la sorte a decidere chi debba vedere rispettato un proprio diritto o no.
Ci si augura che a seguito di queste pronunce, l’adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale e, in senso più ampio, il rispetto di principi di natura costituzionale, possa essere più celere rispetto a quanto fino ad ora si è visto.
Si rende necessaria un’altra considerazione: per quanto la giurisprudenza, la legge in senso lato e le istituzioni possano intervenire su determinate problematiche (oggi quella dell’affettività), c’è bisogno di un radicale cambiamento che sia di natura culturale.
Il modo in cui la società, gli individui che compongono la stessa società, percepisce tali novità o, per meglio dire, progressi in senso giuridico, è ancora acerbo e permeato da un alone di scetticismo. Tendiamo a confondere un diritto fondamentale con uno speciale premio a cui, nella maggior parte dei casi, una persona detenuta non dovrebbe mai avere accesso, in quanto marchiato dall’immeritevolezza conseguente all’aver compiuto specifici gesti. Anche questi elementi sono indici della soglia di civiltà di un Paese, che deve misurarsi anche sulla base della capacità di garantire diritti fondamentali a tutti inclusi coloro che hanno commesso reati.
Il riconoscimento dell’affettività nelle carceri non può considerarsi come la concessione di un privilegio ad un soggetto immeritevole, ma una manifestazione del più alto dei principi, la dignità umana, che va rispettata prescindendo proprio dal contesto in cui ci si trova, anche se si tratta di uno spazio detentivo.
[1] F. Cambi, Genesi e fenomenologia degli affetti, in Universo del corpo, 1999