di Luca Trevisan

Il 25 aprile si celebra la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo: un’occasione per riflettere, per contrasto, sull’eredità giuridica lasciata da quel regime. Tra i suoi lasciti più significativi vi è il Codice penale noto come “Codice Rocco”, dal nome del giurista che lo concepì. In questo articolo ripercorrerò sinteticamente la figura di Alfredo Rocco e i capisaldi del diritto penale fascista, mostrando come tali principi risultino profondamente incompatibili con quelli della democrazia liberale.

Rocco nacque come nazionalista, ma abbracciò presto il fascismo. Già negli ultimi anni dell’età liberale aveva manifestato la propria avversione per il sindacalismo, che riteneva fonte di divisioni e instabilità sociale. Per contrastarlo, si fece promotore dello Stato corporativo: un modello che, nell’ottica fascista, mirava a pacificare i conflitti tra lavoratori e datori di lavoro, promuovendo un’apparente cooperazione. In realtà, ciò significava annullare le aspirazioni individuali alla ribellione in nome di un’“armonia” superiore imposta dall’alto.

Divenuto Ministro della Giustizia, Rocco ricevette l’incarico di riformare il Codice Zanardelli del 1889, uno dei primi codici penali ispirati ai principi del liberalismo giuridico. Il codice previgente si fondava sulla centralità della persona, rifiutava la pena di morte e poneva l’accento sul principio di legalità e sul ruolo rieducativo della pena. Tuttavia, nell’ottica del regime fascista, esso appariva troppo indulgente e poco funzionale al controllo sociale.

Rocco fu posto a capo della commissione incaricata della revisione, all’interno della quale ricoprì un ruolo di rilievo anche il fratello Arturo. Il nuovo codice adottò un’impostazione sistematica fortemente gerarchica: i reati venivano ordinati per gravità, seguendo una logica decrescente: al vertice venivano collocati i delitti contro la personalità dello Stato e la pubblica amministrazione, in linea con la visione fascista che subordinava ogni interesse individuale alla conservazione dell’ordine statale. Seguivano poi i reati contro l’ordine pubblico, contro l’autorità, contro l’economia pubblica, la moralità e infine i delitti contro la persona e la proprietà. Questo schema rifletteva chiaramente la scala di valori imposta dal regime: lo Stato occupava il primo posto e l’individuo l’ultimo. Emblematico, pertanto, è il titolo IV del Codice, intitolato “Delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”: una formulazione che anticipava, anche sul piano lessicale e culturale, le leggi razziali emanate nel 1938. Tale impostazione testimonia quanto l’ideologia razzista fosse già radicata nell’apparato giuridico fascista.

Un documento fondamentale per comprendere il pensiero di Rocco è la relazione che accompagnava il Regio Decreto del 19 ottobre 1930, giorno in cui venne promulgato il Codice. In essa emerge con chiarezza la sua concezione dello Stato: un’entità cui il cittadino doveva cedere la propria sovranità individuale. Il potere del capo del Governo veniva esaltato, in particolare per la sua capacità di emanare leggi e decreti, rendendo la funzione esecutiva il fulcro del sistema.

Per Rocco, la legge penale aveva una funzione altamente preventiva; pertanto, centrale era il concetto di “pericolosità sociale”, che giustificava l’adozione di misure di sicurezza anche oltre la pena comminata. Pur non escludendo la possibilità di riabilitazione del condannato, il sistema introdotto permetteva, di fatto, detenzioni a tempo indeterminato.

Il giurista Filippo Grispigni, suo contemporaneo, lodava queste misure, sostenendo che contribuivano a evitare possibili rappresaglie contro i colpevoli.

Tra le novità più discusse del Codice Rocco vi fu la reintroduzione della pena di morte, abolita dal Codice Zanardelli. Tale scelta venne motivata con parole esplicite:

«Non può esser dubbio che, per i più gravi delitti, quelli che più profondamente commuovono l’opinione pubblica e mettono in pericolo la pace sociale, la pena capitale sia di gran lunga la più efficace, anzi l’unica efficace. Delle varie funzioni che la pena adempie, la principale è certamente quella di prevenzione generale, che si esercita mediante l’intimidazione derivante dalla minaccia».

Durante il regime, la pena di morte fu più volte applicata dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, organo utilizzato per reprimere ogni forma di opposizione politica. Si pensi, ad esempio, ai processi contro i partigiani sloveni e croati, che si opponevano all’italianizzazione forzata dei territori occupati.

Si potrebbe ritenere che, con la caduta del fascismo, anche il Codice Rocco sarebbe stato rapidamente abbandonato. Invece non andò così. Sebbene nel dopoguerra siano state rimosse molte delle sue parti più autoritarie, soprattutto quelle legate ai reati politici, una riforma complessiva del Codice non è mai stata attuata. Potremmo ipotizzare che la sua permanenza si spieghi anche a causa del disinteresse dell’opinione pubblica e l’indifferenza della politica. Come osserva Sarah Musio, se la classe dirigente non percepisce la necessità di aggiornare un pilastro fondamentale dell’amministrazione statale, difficilmente sarà la società civile a chiederne il superamento, soprattutto trattandosi di questioni altamente tecniche.

Ad ogni modo, oggi, a distanza di quasi un secolo dalla promulgazione del Codice Rocco, dobbiamo riconoscere la fortuna di vivere in uno Stato democratico, fondato su una Costituzione che tutela i diritti inviolabili della persona e limita il potere punitivo dello Stato entro rigorosi confini.

Il diritto penale contemporaneo, pur tra contraddizioni e difficoltà, si ispira a principi liberali e garantisti: il principio di legalità, di sussidiarietà, la presunzione di innocenza, la funzione rieducativa della pena (art. 27 co.3 Cost.), il rispetto della dignità umana. In un tempo in cui queste garanzie non erano affatto scontate, il diritto veniva piegato alle esigenze del potere e trasformato in strumento di oppressione e repressione – come attualmente purtroppo accade in altre parti del Mondo.

Ricordare il passato giuridico del nostro Paese non significa solo fare memoria, ma comprendere quanto sia prezioso — e fragile — il patrimonio di libertà e giustizia conquistato con la democrazia. Sta a noi proteggerlo.


Fonti (non esaustive)

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